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Jacques Brel - Monografia |
“Je suis
<chansonnier>, je suis un petit artisan de la chanson”... |
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... e un poeta |
Dunque, Jacques Brel - Schaerbeek, 8 aprile 1929 – Bobigny, 9 ottobre 1978 - del quale eravamo e siamo tutti convinti trattarsi di un poeta, tale non si riteneva. Quantomeno, rispetto ai testi che scriveva per le sue canzoni (eh sì, perché invece le poesie che scriveva – lo erano anche per lui). In tal senso egli disse: “La canzone non è né un'arte maggiore né un'arte minore. Non é un'arte. É un campo molto povero, perché imbrigliato da tutta una serie di discipline. Io vi sfido a esprimere chiaramente un'idea benché minima in tre strofe e tre ritornelli... Fare una poesia vuol dire sedersi, prendere una penna e lasciarsi guidare dalla propria immaginazione. Il verso libero offre una grandissima libertà. Anche l'alessandrino pone meno costrizioni rispetto alle discipline che reggono la canzone. D'altronde, la musica, che è una cosa meravigliosa e per la quale ho il massimo rispetto, perde gran parte delle sue qualità a partire dal momento in cui la si mette a servizio del testo. Non c'è niente di più fastidioso che mettere una nota sotto una parola...” |
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Soffermiamoci
sulla prima parte del discorso, quello relativo al testo – e comunque, in un
secondo momento Brel si correggerà, ammettendo di riuscire talvolta a esprimere
dei “climi poetici” - dobbiamo tener conto di un fatto molto importante, tutto
interno alla tradizione musicale francese del Novecento e soprattutto del
secondo dopoguerra: a differenza della musica popolare italiana (ma non quella
napoletana), britannica o americana, nella canzone francese la poesia, quella
con la “p” maiuscola, ha un suo forte radicamento; numerosi compositori hanno,
infatti, musicato liriche di poeti anche strafamosi, come se in Italia
parlassimo di Quasimodo, Ungaretti, Saba, Montale, Luzi. Ne citeremo alcuni:
Jean Cocteau, che scriveva a getto continuo; Aragon e Hahn, tanto cari a Leo
Ferré; Verlaine, Max Jacob cantato da Charles Trenet, e che dire di Jacques
Prevert e le “Les feuilles mortes”, interpretate da Yves Montand e Juliette
Greco, per citare almeno due grandi nomi. E poi ci sono i versi (o gli scritti)
di Queneau, Sartre, della Sagan. |
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Però, però, però... c'è un'altra verità. Vera come la prima. Una cosa è il Brel che, dopo avere composto una canzone, la canta in sala d'incisione. Ben altra – come assicurano quanti lo hanno visto dal vivo, e come si riesce a intuire dai filmati – è il Brel quando la interpreta dal vivo. Qui, infatti, egli è un'altra “cosa”: la sua canzone (testo e musica) non è solo ciò che si ascolta, ma anche ciò che si vede. E cosa si vede? Un artista, nel vero senso della parola, che si esprime con tutto se stesso; con la voce (forse) innanzi tutto – ammaliatrice e sinuosa, tormentata e impetuosa, tenera e nervosa - ma anche con gli occhi, la mimica, la gestualità, le mani, lo sbracciarsi, il corpo. Una performance inaudita, che non ha avuto e non ha eguali, in Francia come nel mondo. Non per nulla, i suoi concerti non duravano più di un'ora e senza “bis”: ecco dove risiede quella poesia che l'Autore stesso non vede. E tantomeno può vedere quando è sul palco, dove si “sda” totalmente al pubblico. Si dà a tal punto che dopo soli quindici anni, a base di un concerto a sera o quasi, si ritira per “riposarsi” col teatro e con il cinema: da attore, autore, regista e compositore di colonne sonore. |
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Dopo la
“parentesi” teatral-cinematografica, torna a scrivere canzoni per sé e a
incidere; per poi “sdarsi” invece nei pochi anni che gli resteranno da vivere,
in un'esistenza relativamente avventurosa in giro per il mondo in aereo e con un
veliero, che lo porterà a vivere e morire (tecnicamente, a Parigi, all'ospedale
di Bobigny) sull'isola di Gaugin, Hiva Oa, nell'Arcipelago delle Marchesi, in
Polinesia. |
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Lo sceltissimo pubblico dell'Olympia avrà modo di
rivederlo nel 1964, quando Brel eseguirà per la prima volta la
dirompente “Amsterdam”, e nell'ottobre del 1966 (con il programma di
sala che pubblica uno scritto di Georges Brassens), al momento del suo
addio alle scene – a cui nessuno crede; ma si ricrederà, perché a
differenza di tutti i suoi colleghi (solo Mina, in Italia, ne ha seguito
l'esempio) non si farà più vedere dal vivo, con
Charles Aznavour a
tampinarlo pregandolo di rivedere la decisione... In precedenza, dal
'65, Brel compie una tournee di cinque settimane in Unione Sovietica e
tiene un concerto alla Carnagie Hall (il “New York Times” titola “Un
magnifico uragano”). Dopo l'Olympia, come da contratto, si reca alla
Royal Albert Hall di Londra, ottenendo un niente affatto scontato
successo. E qui Jacques Brel mette il punto definitivo. |
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Una eredità fondamentale sia per la musica sia per la poesia |
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Nel 1974 torna a comporre per sé e a cantare,
ma solo in sala d'incisione. |
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© Sandro Damiani per Musica & Memoria - Settembre 2016 / Riproduzione anche parziale della monografia non consentita |
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