I Kings nel 1966. Pierpaolo Adda è il secondo da
sinistra |
1. Iniziamo dalla musica, come racconti nel
tuo libro "Caffè amaro - Quel certo sapore degli anni '60" il primo
disco che hai acquistato, era proprio il 1960, era Especially For
You del chitarrista Duane Eddy, che conteneva il celebre brano
strumentale Peter Gunn. Sonorità quindi molto lontane dalla musica
leggera italiana dell'epoca. La domanda è: da dove è nato il tuo
interesse per i nuovo suoni, era un interesse già diffuso tra voi
liceali o era ancora qualcosa solo per pochi, tra cui tu?
R. A quel tempo – eravamo in piena esplosione del Rock & Roll -
ascoltavo tutto ciò che si poteva trovare in arrivo dagli Stati
Uniti. “Especially For You”, il primo LP da me posseduto, l’ho
acquistato a Londra dopo aver sentito su 45 giri la sua splendida
“Rebel Rouser”, che mi ha aperto gli occhi sul concetto di “sound”,
termine sino ad allora del tutto sconosciuto.
2. Sempre andando ai tuoi primi passi nel
mondo della musica, influenzati dai musicisti inglesi e americani
come Shadows, Everly Brothers, Ray Charles, pensando a come oggi sia
facile ascoltare ogni possibile brano che venga in mente o di cui si
senta parlare, con YouTube o Spotify, viene la curiosità di sapere
come facevate voi nel 1960-61 a conoscere questa nuova musica:
bastavano i juke box? Vi prestavate i dischi?
R. Usare il Juke-box era costoso, e quindi, se ci si rivolgeva a
quel macchinario, era solo per ascoltare canzoni che già
conoscevamo. Le novità si ascoltavano soprattutto dalla radio (io
ero un patito di Radio
Luxembourg, che ascoltavo dopo le 22 e fino a che il sonno non
mi ammazzava). Difficilmente tra ragazzi ci scambiavamo i dischi,
perché ognuno era molto geloso della sua piccola collezione. Io, che
allora frequentavo il Liceo Scientifico a Verona, passavo molte ore
pomeridiane, specialmente il sabato, alla “Casa del disco”, un
negozio di dischi del centro, e, grazie alla pazienza dei titolari
(marito e moglie), che mi consentivano di occupare a lungo una delle
loro cabine, ascoltavo tutte le novità, e ogni tanto facevo un
acquisto.
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Pierpaolo Adda in una foto promozionale e
nella prima formazione con Dino nel periodo RCA |
3. Tu hai scelto subito il tuo strumento, la
batteria, senza esitazioni né ripensamenti. Una scelta fortunata a
quanto si dice, perché quasi tutti puntavano a fare il chitarrista o
il cantante e front-man, ma un batterista era indispensabile e non
si trovava facilmente. In fondo anche Beatles e Rolling Stones hanno
avuto questo problema agli inizi. Ha effettivamente aiutato la tua
carriera questa scelta iniziale, eravate effettivamente così pochi e
contesi?
R. Batteristi bravi tra i giovani non ce n’erano in effetti molti,
per cui posso dirmi fortunato per la scelta fatta, anche se devo
riconoscere che anch’io all’inizio puntavo alla chitarra per formare
un piccolo complesso nel mio paese di Soave. Visto però che avevo
già un cugino che si era dedicato a questo strumento, ho pensato che
la maniera più rapida per formare questo complesso poteva essere
offrirmi di accompagnarlo con la batteria. Di qui il mio approccio a
questo strumento. Il bello è che con mio cugino non mi è di fatto
mai capitato di suonare. In compenso, dopo un transito nel gruppo
The Storms, sono approdato a I Kings!
4. Negli stessi anni in cui esplodeva il
fenomeno dei "complessi", la principale nuova corrente musicale del
900, il jazz, era in un momento cruciale di evoluzione e di
innovazione. Avevi e avevate un interesse e quindi una conoscenza
per quello che avveniva nel jazz? Ascoltavate quella musica che era
tra la fine dei '50 e i '60 in una fase di vertice creativo, con
Miles Davis, John Coltrane, Charles Mingus, e la nascita controversa
del free jazz?
R. Al Jazz mi sono sempre interessato, anche perché i grandi
batteristi allora erano tutti jazzisti. Io avevo cominciato a
studiare la batteria sul metodo di Gene Krupa, ma ero grande
ammiratore di Max Roach, Art Blakey e Joe Morello, artisti di stile
tra loro totalmente diverso, ma tutti ugualmente elettrizzanti per
la bellezza dei loro linguaggi. Il Free Jazz non è però mai stato
nelle mie corde. Il mio problema con questa forma espressiva è che
il suo contenuto melodico, per me componente fondamentale di ogni
forma musicale, è praticamente inesistente, per cui non riuscivo e
non riesco a sentirlo attraente. Il limite, sia ben chiaro, non è
del tipo di musica, ma evidentemente mio!
5. Un'altra domanda sul jazz, dove la
batteria e la sezione ritmica hanno un ruolo fondamentale. Tu, e in
generale anche gli altri batteristi, conoscevate e ascoltavate anche
i batteristi jazz, Art Blakey, Shelly Manne, Elvin Jones e le loro
invenzioni ritmiche?
R. Come ti dicevo sopra, Art Blakey è stato uno dei miei punti di
riferimento. Tra l’altro, alla fine degli anni ’70, ho avuto la
fortuna di incontralo alla fine di un suo concerto presso il Teatro
K2 di Verona, e di fare con lui una bella chiacchierata. In
quell’occasione ho scoperto che, dietro il grande musicista, c’era
un uomo di grandissima qualità!
6. La tua carriera musicale ha coperto per
intero tutti gli anni '60, un periodo di enorme creatività in ambito
musicale. A distanza di tempo gli ascoltatori vedono meno nettamente
le differenze e le evoluzioni nella musica "non leggera": twist,
surf, beat, rock, soul, R&B... è percepita come tutta musica "anni
'60".
Sono certo che invece per voi i vari passaggi siano stati più netti
e a volte spiazzanti. Quali sono stati a tuo ricordo i passaggi
veramente "epocali", quelli che ti hanno costretto a rivedere i tuoi
riferimenti?
R. Posso parlare solo per me, perché non è detto che altri miei
coetanei abbiano avuto lo stesso tipo di sensibilità. Ti segnalo
quali sono stati nella mia vita i punti storici di riferimento: a
metà degli anni ’50 ero innamorato di Harry Belafonte, che, con
“Banana Boat” (1956) attirò l’attenzione di tutto il mondo sulla
realtà caraibica, allora espressa dal Calypso, nuovo ritmo (e danza)
di grande fascino. Quasi contemporaneamente fui colpito
dall’esplosione del Rock & Roll. Quella musica mi entrò subito nel
sangue, e ci rimane tuttora. Nel 1959/60 fui catturato dal “sound”
della chitarra di Duane Eddy, e pochi mesi dopo dal primo grande
fenomeno musicale europeo, che conquistò e condizionò il gusto di
tutti i musicisti giovani: The Shadows. Fu questo gruppo – in
Inghilterra spalla di Cliff Richard, ma in tutta l’Europa fenomeno
musicale più importante di questo pur grande cantante – a stimolare
la la nascita e la crescita delle prime formazioni strumentali
giovanili.
Tra il 1963 e il 1964 scoppiò il fenomeno Beatles, che cambiò la
musica, il gusto e il modo di vivere di tutto il mondo giovanile,
musicale e non. Sulla loro scia esplosero i Rolling Stones e la
cosiddetta British Invasion. Io sono ancora dell’idea che i Beatles
abbiano avuto nel panorama musicale mondiale la stessa importanza
che la scoperta dell’America ha avuto per la storia dell’umanità.
Quanto ai ritmi cui tu accennavi, direi che il Rock & Roll è stato
la matrice di tutta la musica cosiddetta bianca che abbiamo
ascoltato e vissuto, mentre il Rhythm & Blues riassume un po’ tutte
le forme della musica nera, che nasce comunque dalla radice del
Blues.
7. Domanda obbligatoria sul vostro
controverso coinvolgimento con Dino. Dal libro l'impressione che si
ricava è che sia stata una fortuna all'inizio, una strada facilitata
verso il successo a livello discografico, ma poi è diventata una
strada che vi portava lontano dalle vostre aspirazioni e orientati
inevitabilmente verso la musica più commerciale. E' così, o in
realtà ti è dispiaciuta la separazione a metà del decennio?
R. La nostra separazione da Dino ha costituito allora la vera grande
delusione che il nostro sogno di affermazione nel mondo musicale
dovette soffrire. Come ho cercato di spiegare nel mio libro, è vero
che abbiamo deciso di lasciare Dino, ma costretti a ciò (e
alternative non ce n’erano) dal suo atteggiamento e da un fatto
compiuto cui fummo posti dinanzi da RCA e Teddy Reno. In sintesi,
per restare con Dino avremmo dovuto accettare di cambiare la nostra
relazione con lui da “Dino e I Kings”, che avrebbe significato una
specie di versione italiana di “Cliff and The Shadows”, a più
semplicemente qualcosa come “Dino il suo complesso”, dove Dino
avrebbe acquisito una totale autonomia artistica, indipendente dalle
nostre aspirazioni e perciò da un nostro futuro artistico. Questa
prospettiva era per noi inaccettabile, e per tale ragione abbiamo
preferito lasciare Dino e la RCA. Sì, allora , è stato un
dispiacere, ma gli avvenimenti successivi hanno ben compensato
questa sofferenza.
8. In ogni caso a differenza della
maggioranza dei complessi siete arrivati molto presto a una
dimensione discografica, a un contatto diretto con la produzione
professionale. Ben pochi gruppi del periodo ci sono arrivati, forse
neanche 20-30, la maggioranza degli oltre 1000 che hanno pubblicato
un disco l'hanno fatto con iniziative promo, per un solo titolo, con
etichette piccole e piccolissime. Qualche domanda su questo mondo
ora sparito è d'obbligo, la prima è: i tecnici del suono e i
produttori che hai incontrato erano interessati anche alla musica in
quanto tale o il loro interesse prevalente erano l'aspetto tecnico o
commerciale?
R. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare (periodo “Dino e I Kings”)
con la RCA Italiana, la più grande casa discografica nazionale,
facente capo alla RCA americana, a quel tempo la maggiore realtà
discografica mondiale. Abbiamo avuto in sala di registrazione i
migliori tecnici, assistenti musicali e produttori a quel tempo
attivi. Basti ricordare che hanno partecipato alle nostre
registrazioni maestri del calibro di Riccardo Michelini, Ettore
Zeppegno, Ruggero Cini e Sergio Bardotti, e che, a sovrintendere
tutta la nostra produzione, anche se in studio non ha mai
fisicamente lavorato con noi, c’era un fuoriclasse come Ennio
Morricone.
Presso la Durium (periodo “I Kings”) non avevamo lo stesso
dispiegamento di forze tecnico-musicali. Abbiamo però potuto godere
di una amplissima autonomia creativa e produttiva, cosa che ci ha
consentito di proporre non solo testi nostri (li scrivevo io) per la
maggior parte delle cover che abbiamo registrato, ma anche canzoni
interamente scritte da me e dal nostro solista Ennio Ottofaro. E
questo a quei tempi era una vera conquista! Insomma, l’avventura è
stata bella anche per questa possibilità che ci è stata offerta. |
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Pierpaolo Adda (primo a
sinistra) coi Kings e sulla copertina di Giovani del
luglio 1966 (in alto) |
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9. La seconda
domanda sull'industria discografica italiana dell'epoca, in piena
salute allora. Dal tuo libro appare un mondo di grande
professionalità, pur nella disparità di mezzi tra etichette grandi e
piccole, ma non molto interessato all'innovazione, più che altro a
seguire con tempestività le nuove mode che arrivavano da oltre
Manica o da oltre Oceano? Tu che ci sei stato dentro, c'erano negli
anni '60 anche oasi e settori interessate invece a far emergere
qualcosa di nuovo? Hai qualche esempio da condividere?
R. In realtà in quel periodo l’intera industria discografica
italiana sembrava più orientata a cogliere l’attimo fuggente che a
creare qualcosa di originale. Ecco infatti il proliferare di
successi anche di grande rilievo, che però non erano altro che cover
di originali inglesi o americani. Questo a noi non piaceva. Ci siamo
infatti orientati a cercare sempre più seriamente una nostra
dimensione, anche a costo di sacrificare qualche soddisfazione
immediata. La delusione di non aver potuto portare al Cantagiro 1966
la nostra versione di “Io ho in mente te”, da noi registrata prima
dell’Equipe 84, ci ha decisamente e definitivamente spinti nella
direzione di cercare di creare un nostro repertorio originale.
La cosa migliore che abbiamo prodotto è stata “Caffè amaro”, una
canzone che ancor oggi ascolto e canto molto volentieri, e che tra
poche settimane avrà la sua cover americana. John Jorgenson,
chitarrista di Desert Rose Band, Hellecasters, Elton John ed altri,
ha scritto un testo inglese costruito sulla falsariga del mio e ha
registrato una versione della nostra canzone a dir poco
entusiasmante. So che il brano, che lui esegue già ora nei suoi
concerti, sarà compreso nel suo prossimo CD “The Sweetwater
Sessions” e manterrà il titolo originale “Caffè amaro”. Una gran
bella soddisfazione ad oltre 50 anni dalla pubblicazione del nostro
disco!
10. Una curiosità: oltre che alla batteria
ti sei cimentato spesso nella scrittura dei testi delle canzoni,
quindi presumo che tu ti sia interessato anche al mondo dei
"parolieri", molto numerosi negli anni '60 per l'intensa attività di
nuove produzioni, originali o cover. Ti faccio quindi una domanda su
un fenomeno curioso: l'assoluta prevalenza nei testi degli anni '60
della figura dell'inconsolabile innamorato abbandonato, spesso a
favore di un altro. Spesso questa situazione era adottata in modo
incongruo anche per cover di canzoni inglesi che invece celebravano
un amore felice. Una situazione piuttosto incongrua visto che a
cantare erano ragazzi componenti dei complessi, che proprio per
questo ruolo davvero non avevano problemi con le ragazze e anzi
erano molto "ricercati". Erano quasi tutti uomini di mezza età, da
anni nel mestiere. Mi è venuto il sospetto che questa insistenza
nascondesse un'inconscia invidia per voi. Oppure era una reazione al
nuovo ruolo della donna che stava scardinando il loro mondo?
R. Scrivere testi in quell’epoca era, per i parolieri
professionisti, un’attività basata sulle loro abitudini, sulla loro
visione (adulta e retro) della vita, e probabilmente su quello che
il mercato confermava loro essere funzionale. Pochi sviluppavano
idee veramente interessanti. Tra l’altro non va dimenticato che i
maggiori successi stranieri rilanciati in italiano erano di
provenienza inglese o americana, e comunque scritti in inglese,
lingua non conosciuta bene da tutti. Inoltre il tema dell’amore non
corrisposto è sempre stato alla base della nostra tradizione
musicale leggera, perché raggiunge facilmente e rapidamente le corde
più sensibili dell’animo, ha un effetto consolatorio, e mette
l’ascoltatore in una situazione di condivisione, perché nella vita
di ognuno c’è stato un amore senza lieto fine. Non penso perciò
fosse una questione di invidia, ma più semplicemente una scorciatoia
per arrivare a scrivere qualcosa di facilmente digeribile dal
pubblico.
I miei testi non hanno mai seguito questa regola. Io, nel caso di
brani stranieri per i quali ho scritto un testo, ho soprattutto
cercato di rendere in italiano il suono dei versi originali, perché
ero e sono convinto che la sonorità della parola sia spesso tanto
importante quanto il suo significato. Invece, nella scrittura di
nostre canzoni originali, ho cercato di raccontare storie che
avessero un loro senso autonomo, tenendomi lontano da quegli schemi
che vedevo adottati dalla “concorrenza”. Niente perciò cuori
infranti, e altri argomenti triti.
11. Altra curiosità: i complessi composti
da sole ragazze (anche agli strumenti) erano molto rari e di loro si
sono spesse perse del tutto le tracce. Nei molti eventi ai quali hai
partecipato hai per caso incrociato o saputo qualcosa di qualcuno di
questi gruppi, magari le Mini Minor di Reggio Emilia delle quali non
si sa più nulla?
R. Ho avuto occasione di incontrare solo le Snobs di Desenzano del
Garda, inventate e dirette dal maestro Ruggero Giusti, mio insegnate
di pianoforte quando ero interno presso il convitto “Bagatta” in
quella bella cittadina sul Benaco. Queste ragazze, tre delle quali
erano sue figlie, sono state, se ben ricordo, il primo gruppo vocale
e strumentale sponsorizzato dalla EKO, la nota azienda di Recanati,
costruttrice di chitarre, che dal 1964 affiancò anche noi fornendoci
strumenti realizzati secondo le nostre richieste, tra i quali nel
1966 le chitarre a forma di “K” denominate “I Kings”.
12. Siete tra i non molti gruppi che hanno
proposto una cover degli Zombies, che sono stati uno dei gruppi
inglesi più interessanti e creativi, oltre che autori delle loro
canzoni come i Beatles, gli Stones o i Kinks, al livello dei più
celebrati e noti, ma decisamente poco conosciuti in Italia. Come
siete arrivati a loro? Conoscevate anche altre cose oltre a She's
Not There?
R. “She’s Not There”, che nella nostra versione si intitolava “Ma
non è giusto”, è stata la prima, ma abbiamo inciso anche “Sei stata
tu”, versione, con testo scritto da me, di “You Make Me Feel Good”.
Il gruppo The Zombies era veramente sconosciuto in Italia quando la
Durium ce lo fece conoscere. Le loro atmosfere, così diverse da
quelle di Beatles, Stones e altre band inglesi, ci colpirono subito
e cercammo subito di farle in qualche modo nostre.
13. Caffè amaro è secondo me (e non solo
me) una delle più belle tra le canzoni in stile beat originali, che
per di più erano molto rare perché quasi tutti i "complessi"
italiano interpretavano solo cover o canzoni scritte da altri. Tra
l'altro ci trovo un'assonanza di stile con gli Zombies. Purtroppo,
come hai raccontato nel tuo libro, a causa del ritardato arrivo sul
mercato e sulla scarsa promozione per radio non è stata all'epoca
conosciuta come meritava. In questa canzone colpisce la grande
sintonia tra la musica e le parole, anche se gli autori sono
diversi, quantunque amici e colleghi, puoi dirci qualcosa di più su
come si crea una canzone a 4 mani se le parole influenzano la musica
o viceversa, a passi successivi?
R. Grazie innanzitutto per il complimento! “Caffè
amaro” nasce dal desiderio di far capire alla Durium che, anche
se l’esperienza del Cantagiro non ci aveva dato le soddisfazioni che
ci attendevamo, cose da dire ne avevamo. Dovevamo a tutti i costi
uscire con una canzone “nostra” sotto tutti i profili, diversa da
ciò che il mercato dei complessi offriva, e perciò originale,
piacevole all’ascolto ma non banale. Ennio mi fece ascoltare una
linea melodica che aveva composto e che mi piacque subito. Mancava
solo una bella idea per il testo. Come ho scritto nel mio libro che
porta il titolo della canzone, scrissi i versi a Milano, la sera
precedente la registrazione delle voci, dopo cena, in albergo (Hotel
Rex). Scrissi una breve storia d’amore che di fatto non finisce. Non
c’è né il suo coronamento, né il pianto per un rifiuto. Il racconto
si conclude con l’assenza della ragazza amata, che non torna allo
stesso luogo di mare, e con la scoperta di quant’è amaro un caffè
bevuto senza di lei.
Come vedi, in questa occasione la musica è arrivata prima delle
parole. Questo è abbastanza normale quando si compone in due, perché
è molto più semplice adattare un testo ad una linea melodica che
scrivere una melodia su storie e versi già scritti. Viceversa,
quando ora scrivo una mia canzone (testo e musica), normalmente
inizio col buttar giù una storia che mi piace raccontare e poi la
vesto con una melodia che mi sembra ci si adatti bene.
14. Gli anni '60 in musica in Italia sono
stati caratterizzati dal fenomeno dei "complessi beat". Non sono
ancora riuscito a completare un censimento almeno parzialmente
attendibile a causa delle scarse informazioni, dei molti cambi di
nome e del difficile confine da tracciare tra gruppi amatoriali e
gruppi considerabili "professionali" anche se con un'attività molto
ridotta. In ogni caso erano almeno nell'ordine dei 2000 quelli con
ambizioni professionistiche. Un mondo che nel giro di pochi mesi al
volgere del decennio è quasi completamente sparito. Tu per altri
motivi avevi già lasciato, ma negli anni precedenti vi aspettavate
qualcosa del genere? Che effetto ti ha fatto questa rapida
"estinzione"?
R. Io credevo molto nel fenomeno “complessi” e nella ventata nuova
che avevano portato sulla scena musicale. Non finirò mai di
ringraziare i Beatles per la loro genialità, per l’eleganza della
loro musica e per aver indicato un percorso che ancor oggi è una
strada maestra, destinata a restare tale per ancora molti anni. I
Beatles, a mio avviso, stanno alla musica popolare allo stesso modo
in cui Mozart sta alla musica classica. Il declino dei complessi,
quel tipo di complessi, secondo me è in parte dovuto alla
complessità della musica che ha visto la sua origine alla fine degli
anni ’60 e si è sviluppata negli anni ’70.
Il Prog, il Rock sinfonico, il Glam Rock, e tutte le mode seguenti
hanno comportato la creazione di arrangiamenti sempre più
complicati, l’adozione di strumentazioni sempre più costose, e, alla
fine, l’oscuramento del vecchio schema, che prevedeva semplicemente
4 o 5 ragazzi insieme sul palco a suonare le “canzoni”. Quello che
ora mi fa sorridere, ma non con amarezza, è che ogniqualvolta la
gente si ritrova per fare un po’ di musica in compagnia ripesca
sempre e sistematicamente il repertorio anni ’60. Questo la dice
lunga sulla effettiva corrispondenza di quella musica e di quegli
stili al sentire della gente!
15. Sei rimasto legato al mondo della
musica ovviamente. Posso chiederti cosa ascolti ora e che cosa hai
ascoltato negli anni trascorsi dai mitici "anni '60"? Quali sono
stati a tuo parere le svolte e gli stili che più hanno lasciato il
segno, e gli artisti più significativi?
R. Ascolto un po’ di tutto, come una volta. Ascolto tutti i generi
musicali, eccetto quei prodotti che non contengono i due elementi
aurei, che – qui concordo con Chet Atkins – sono la “melodia” e il
“ritmo”. Quando manca uno di queste due componenti non riesco a
sentire alcuna attrazione. Questo mi tiene abbastanza lontano, ad
esempio, dal hip-hop, come mi ha tenuto lontano dal free jazz. Molto
probabilmente è un problema di mia insufficienza culturale, ma è
così.
Se poi vuoi sapere cosa veramente mi emoziona, a parte il buon Rock,
inteso come Rock & Roll, è il Flamenco, quello vero, quello di
grande qualità. Adoro Camaron de la Isla, e con lui Paco de Lucia, i
due veri giganti di questa musica vera, sanguigna, tutta anima ed
emozioni. Se poi vuoi ritornare alla musica che viene dopo il beat e
il folk degli anni ’60, ti metto in fila i gruppi e gli artisti che
mi hanno emozionato e che ho amato e amo di più. Inizio con Jimi
Hendrix, e poi aggiungo Jethro Tull, Free, Dire Straits e Mark
Knopfler nella sua carriera solistica, un artista a mio avviso
gigantesco, che non finisce mai di stupirmi. Mi fermo qui, ma non
perché gli altri attori ultimi 40 anni non siano interessanti. Come
ti ho detto, ascolto un po’ di tutto. Ti ho solo elencato quelli che
ho sentito e sento più vicini alla mia sensibilità. |
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Altre due
immagini di Pierpaolo coi Kings nel secondo periodo di
attività, con Renato Bernuzzi (con la barba) come
cantante e front-man |
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16. Ci racconti "qualche altra cosa" della tua
esperienza post-beat e post-Kings con la Numero Uno di Battisti e
Mogol, la produzione degli Alpha Centauri di Immagine bianca e Dai
treno dai? Nel libro fai un accenno ma poi ti fermi lì, "servirebbe
un capitolo a parte" scrivi. Una sintesi?
R. Sì, servirebbe un capitolo a parte, degno dell’attenzione di uno
psicanalista di gruppo, perché gli “Alpha Centauri” sono stati un
incredibile concentrato di qualità e di miopia artistica. Si
trattava infatti di ragazzi di estrema bravura e talento, che
avevano stupito gli amici Sandro Colombini e Franco Daldello, i
responsabili artistici della nuova etichetta discografica, ed
entusiasmato Lucio Battisti, che ne era l’anima, tanto da indurlo a
raggiungerci mentre eravamo in sala d’incisione e a mettere la sua
chitarra acustica al servizio di “Dai treno, dai”, suonando una
bella e pressante parte ritmica. Fin qui la qualità. La miopia
artistica emerse immediatamente dopo l’uscita del disco, che doveva
essere semplicemente il primo gradino di una brillante progressione
di carriera. Alla richiesta, infatti, di trasferirsi armi e bagagli
a Milano per lavorare seriamente a brani, dischi e altre avventure
musicali, la risposta del gruppo fu un semplice “no”, promosso dal
tastierista e seguito dagli altri elementi del gruppo.
Il motivo, incredibile a dirsi, era che i ragazzi non volevano
staccarsi dalla loro città. Sottolineo che a quei tempi la musica si
faceva a Roma (RCA) e a Milano (tutte le altre case discografiche),
e che vivere a Milano era considerato da ogni artista che volesse
farsi strada un privilegio! Io ed Ennio Ottofaro, i produttori del
gruppo, restammo senza parole, come tutti alla Numero 1, e ci
sentimmo in qualche modo traditi, perché credevamo nell’enorme
potenziale degli Alpha. Ma per fare un matrimonio, come sai bene,
bisogna essere “almeno” in due! E così finì non solo la loro
carriera artistica, ma anche fisicamente il gruppo, che pochi mesi
dopo si sciolse. Sic transit gloria mundi! Chiudo aggiungendo che
sono stato felice sia nei momenti belli che in quelli a volte
scoraggianti, perché la mia avventura musicale ne I Kings, breve ma
intensissima, è stata veramente entusiasmante! |
17. Per finire una domanda d'obbligo su quello
che che ha fatto e che fa oggi Pierpaolo Adda nel campo della musica
e non solo, anche della scrittura (non soltanto di canzoni) e a cui
hai accennato nel corso dell'intervista.
R. La musica e la
scrittura sono rimaste le mie passioni anche dopo la fine
dell'avventura con I Kings. Smessi i panni del batterista, che ho
ripreso solo per alcune riunioni del gruppo a scopo benefico
(l'ultima risale agli anni '90) mi sono concentrato sulla chitarra,
strumento che ha, come ricorderai, sempre occupato il mio cuore, e
ho dato vita nel 1991 ad un festival chitarristico, il "Soave Guitar
Festival", che ho condotto fino al 2012, e che mi ha consentito di
portare nella mia cittadina grandissimi chitarristi, qualii Tommy
Emmanuel (il più grande chitarrista acustico vivente), Nokie Edwards
(bassista e solista del gruppo americano "The Ventures", Bruce Welch
(chitarrista ritmico dei miei idoli "The Shadows"), James Burton
(chitarrista di Elvis Presley), John Jorgenson (chitarrista di "The
Desert Rose Band", "The Hellecasters", "Elton John Band"), e tanti
altri.
Mi sono anche dedicato con continuità alla scrittura di storie,
poesie, testi per canzoni altrui e mie. Dopo "Caffè amaro - Quel
certo sapore dei miei anni '60", ho pubblicato "Soave Guitar
Festival - Scene e retroscena", libro nel quale racconto come mi è
accaduto di tramutare un sogno, quello di realizzare un evento come
quello, in realtà. Ho pubblicato poi 6 volumi di poesie, l'ultimo
dei quali, dal titolo "Giorni feriali e feste comandate" verrà
a breve presentato anche a Roma.
Con l'aiuto della mia chitarra ho anche scritto parecchie canzoni.
Due anni fa ho pubblicato con Azzurra Music il mio primo CD, dal
titolo "Lancillotto e Ginevra", contenente 14 mie canzoni originali.
Sto ora lavorando ad un secondo CD, che spero possa essere pronto
poco dopo l'inizio del nuovo anno. Anche questo sarà composto da
canzoni mie, perché ho scoperto che scrivere canzoni per intero
(testo e musica) mi piace di più che mettere solo i miei versi a
disposizione di altri. Con questo non voglio dire che fare il
(brutta parola!) "paroliere" mi dispiaccia. Con Bobby Solo, ad
esempio, mi è capitato alcuni anni fa di scrivere alcune canzoni
(lui le musiche e io i testi).
E' stata un'esperienza molto bella, anche perché Bobby ha una
facilità incredibile di creare melodie sulle quale mi viene facile
mettere i miei versi. Una di queste - l'abbiamo scritta per gioco,
ma il risultato è stato veramente esilarante - si intitola "El twist
del matonzin", che , tradotto in italiano, significa "Il twist del
calabrone". Il titolo e testo sono in dialetto veronese. Se ti
accadrà di assistere ad un concerto di Bobby e ti accadrà di
sentirla, sono certo che un sorriso divertito te lo strapperà.
Buona musica e buona memoria! |