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  Billie Holiday - Monografia

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Chi è Billie Holiday

 

“Secondo te, chi e' più brava, io o Sarah?”

 
 
 

Billie Holiday e' appena uscita dall'Alderson Federal Prison Camp (West Virginia), dopo dieci mesi in stato di detenzione e disintossicazione obbligatoria. Isolata dal mondo e dalla musica dal 27 maggio del 1947 al 16 marzo del 1948, una volta fuori ritrova gli amici e gli estimatori di sempre (dapprima si stabilirà a casa del pianista Bobby Tucker, sotto l'ala protettrice della di lui mamma), ma anche tante novità. Quella che la tormenta di più e' la fama raggiunta da Sarah Vaughan, che la critica reputa la migliore jazz-singer del momento, superiore, non solo a lei, ma anche a Ella Fitzgerald.

La domanda e' rivolta all'amico Tony Scott, clarinettista di origini italiane. Per tutta risposta, le dice: “Quando Sarah canta “My man is gone”, sappiamo che e' sceso a comperare le sigarette. Quando la canti tu, e' chiaro che se n'e' andato per sempre”.

In questa battuta di Anthony Joseph Sciacca (Morristown, 17 giugno 1921- Roma, 28 marzo 2007, figlio di trapanesi emigrati negli States) c'e' tutta Billie Holiday, ossia la cantante che – come hanno detto e scritto tanti, se non tutti i jazzisti americani – ha dato voce all'anima, trasformando ogni brano musicale, compresi gli standard accompagnati da orchestre ad archi, in blues.

L'insicurezza della Holiday non e', però, frutto dello stato di coercizione vissuto ad Alderson, in mezzo ad assassine alcolizzate; e', bensì, il culmine, l'esplosione, di una sofferenza che solo l'incessante lavoro, le continue registrazioni, i tour, concerti e, ovviamente, il costante stato di inebetimento da alcol e droghe, avevano impedito di far scatenare prima.

 

I primi anni sono difficili

 

Brutalmente parlando, Billie nasce “disgraziata”: i genitori sono poco più che ragazzi quando la mettono al mondo; fin da piccola, vive di stenti e con la madre va in giro per New York a lavare scale e ingressi di locali pubblici, e non di rado si prostituisce: per mangiare! A undici anni e' violentata da un quarantenne: “Mi sono sempre chiesta cosa gli passasse per la testa, mentre si sfogava con una bambina”, si domanda Billie nell'autobiografia (un tantinello sbianchettata), scritta a quattro mani con William Dufty, “Lady Sings the Blues”, uscita nel 1957 (“La Signora canta il Blues”, ultima edizione italiana – Feltrinelli, collana Universale economica 2002). Una mattina si sveglia, come in un film horror, impossibilitata a liberarsi dall'abbraccio della nonna, morta durante la notte e accanto a cui amava addormentarsi. Per qualche tempo vivrà con una zia, più che sadica fuori di testa, e lei ne e' la vittima. Poi sarà la volta di un collegio – roba da racconti di Charles Dickens - dove compagne ed educatrici le fanno di tutto. Insomma, motivi per essere/crescere allegre, proprio non ne ha.

 

La musica cambia la vita

 

Le cose cambiano quando viene scoperto il suo straordinario talento canoro. Diciottenne, dopo essersi esibita quasi per caso in uno dei tanti club newyorkesi, musicisti di buon cuore e grande fiuto la raccomandano a colleghi più noti e in grado di sapere come aiutarla.

In breve tempo, Billie si vede accompagnata dai Mostri sacri dello swing e del jazz: canta con l'orchestra di uno dei piu' famosi bndleader Bianchi: Benny Goodman, quindi con il pianista Teddy Wilson, con il complesso di Artie Show. Addirittura, con la Big Band di Count Basie, in cui milita lo shouter Jimmy Rushing.

Alla fine degli anni Trenta – lei ne ha suppergiù venticinque - Eleonora Fegan da Filadelfia, nata il 7 aprile del 1915, e' già “Billie Holiday”, anzi “Lady Day”, come la ribattezza il tenorsassofonista del “Conte”, Lester Young, da lei a sua volta ricambiato col soprannome “Prez”, che gli rimarrà addosso per tutta la vita.

Ovviamente, e' una notorietà interna al mondo del jazz e del blues: sia di quello Bianco che, soprattutto, di quello Nero. Il bello e', che in repertorio, almeno per ora, non ha “cavalli di battaglia”, pezzi che la contraddistinguano rispetto alle colleghe, presenti e passate. E' lei ad essere un un cavallo di battaglia!

(Nella foto, dalla collezione Driggs, una immagine tratta da una trasmissione televisiva CBS del 1957, assieme a Billie Holiday sono ritratti i tenorsassofonisti Lester Young e Coleman Hawkins e il baritono Gerry Mulligan impegnati in un contest)

 

Strange Fruit

 

Ma ecco che trova il pezzo, e con esso la fama al di fuori della cittadella del jazz, che ne sarà e farà il tratto distintivo. E' un pezzo autenticamente unico – definirlo “canzone” e' fuorviante - che Billie decide di incidere nemmeno due mesi dopo averlo cantato per la prima volta al Cafe' Society, agli inizi del 1939: si intitola “Strange fruit”. Ne e' autore un insegnante comunista, ebreo-russo, Abel Meeropol, che si firma Allen Lewis. Ma non e' un testo qualsiasi, per quanto intrigante e ”diverso”: e' un manifesto di dura, impietosa accusa in forma di poesia, del razzismo imperante. E' una poesia musicata, una poesia su un linciaggio da poco avvenuto: il linciaggio di un Nero; pratica abbastanza normale negli Stati del sud:

«Gli alberi del sud danno uno strano frutto,
sangue sulle foglie, sangue sulle radici,
un corpo nero dondola nella brezza del sud,
strano frutto appeso agli alberi di pioppo».

Si rifà a una scena da lei vista, nel corso di una tournee', quando era costretta a trascorrere il prima e il dopo le proprie esibizioni, fuori dal locale, e mangiare da sola (unica afroamericana in un'orchestra di wasp con qualche raro italo o ispano-americano), essendole proibito di trattenersi nel locale.

E' un atto d'accusa – "Strange Fruit" - che il jazz fino a quel momento non aveva mai conosciuto. A ben guardare, nemmeno il blues. Ancora non siamo agli anni dell'impegno sociale e politico del jazz afroamericano (timidamente all'inizio, convintamente dopo un decennio, spalleggiato dai colleghi Bianchi), quelli in cui si sara' affermato il Be-bob, dalla meta' dei Quaranta, grazie al coraggio civile, sul fronte cinematografico e teatrale di Paul Robeson, a suo modo con Josephine Baker, una generazione svezzatisi con i "race movies" e suonando accanto a due matti che vogliono a tutti i costi essere considerati Neri: il clarinettista Milton Mezz Mezzrow e il cantante Herb Jeffries, per parte di padre di origini sicule ("Trovatemi un siciliano nell'Ottocento, che non abbia radici moresche", suole dire).

L'uscita del disco e' una bomba. Che il titolare della label con cui era sotto contratto – John H. Hammond e la Columbia Records - si era rifiutato di incidere, visto che cominciavno ad andare benino le vendita tra gli acquirenti Bianchi, ma non volendo perdere quella miniera di soldi di nome Billie Holiday (che ovviamente ripagava con una miseria; d'altronde, fu lui a scoprirla e a farle avere tutti gli ingaggi fino a quel momento), permette che venga registrata da una casa discografica piu' che semisconosciuta, la Commodore Records.

In men che non si dica, Billie diventa un'icona della musica nera.

(Nella immagine Billie Holiday sul palco al Festival jazz di Montreaux del 1958)

 

Scelte personali e scelte musicali

 

Non così, quelle artistiche. E' vero che in questo campo c'e' chi la sa guidare, ma e' altrettanto vero che non di rado gli artisti, più artisti sono e più si convincono di cose che in seguito si riveleranno deleterie. Lei, invece, non ne sbaglia una: musicisti, combo, band, pezzi nuovi o standard... non sbaglia un colpo. Ovunque venga chiamata, le vogliono bene.

Per un certo periodo canta a Hallywood – nel frattempo aveva girato un film con Kid Ory, Woody Hermann, Louis Armstrong: "New Orleans". Ad ogni sua esibizione, ai tavolini del locale che l'aveva ingaggiata ci sono le star piu' famose della Mecca del cinema (tra lei e Orson Welles c'era del tenero...); una sera un paio di ragazzotti razzisti cominciano a offenderla, intimandole di andarsene; ebbene, nel giro di pochi minuti, Bob Hope, Lana Turner e Rita Heyworth li scaraventano in strada a calci, pugni e bottigliate...

Un'altra volta – la testimonianza, riportata nel cofanetto "Billie Holiday Ultimate", e' di Billy Eckstine – se ne stava da brava al microfono quando: "Un tizio, a più riprese, le chiede di cantare un certo pezzo. La prima volta Billie reagisce con un sorriso, poi con una smorfia, poi sbuffando, infine: "Senti, invece di rompermi il cazzo, perche' non vieni al microfono e non la canti tu!?"

Sono anni belli e folli: simpatia, successo, serate su serate, dischi... ma alcol e droga a sfare... E poi, non dimentichiamo: siamo nell'America razzista e segregazionista. Hai voglia dire che canta in compagnia di musicisti Bianchi, impresari Bianchi la ingaggiano; Bianchi famosi la coccolano... Lei – e' Nera! E in quella società non può funzionare, men che mai un afroamericano può sgarrare. Pare che la stessa carriera di Welles, da poco acclamato come Nuovo Genio del Cinema Americano fosse in bilico, per la loro relazione...

Va da sé che ne' ciò, ne' l'affetto e la stima di compagni di lavoro, della gente qualunque che la ferma per strada, musicisti in genere e intellettuali progressisti, riescono nemmeno a scalfire la sua grande sofferenza interiore per tutto quanto ha passato. Anzi, proprio le accresciute possibilità finanziarie (ma, ripetiamo, niente in confronto a quello che le sarebbe spettato) le offrono la possibilità di acquistare droghe e alcolici di prima qualità, con cui stordirsi, e affetti umani tutt'altro che sinceri, a cui legarsi. In proposito, ricorderò una più che azzeccata battuta che il regista cineteatrale palatino Arsen Ostojić e l'attrice Ksenija Prohaska, nel loro atto unico – "Billie Holiday" – mettono in bocca all'amico di Billie, Charly, il quale, segretamente innamorato della cantante di vent'anni più grande di lui, le dice in un momento di rabbia: "E' mai possibile che ti innamori o ti metti sempre e soltanto con persone sbagliate? E' come se andassi a comperare arance in un negozio di ferramenta!?".

Ebbene, sì. Tutte le scelte affettive di Billie sono un fallimento.

(Nella immagine il più importante partner musicale di Billie Holiday, il tenorsassofonista e pioniere del be-bop Lester Young, con il suo tipico berretto "pork pie hat", titolo anche della toccante composizione dedicata al musicista dopo la sua morte prematura da Charles Mingus, in seguita proposta per chitarra acustica in una celebre trasposizione dei Pentangle)

 

La ripartenza

 

Gli undici mesi ad Alderton interrompono per un breve periodo la spirale fatta di droghe e alcol. Ben presto ci ricasca. Dopo un po', sembra riprendersi e avviarsi a un nuovo inizio, specialmente in seguito a due tournee europee, in cui scopre di essere famosissima e amata, e che il colore della sua pelle non comporta negli interlocutori nessun connotato negativo. Ma anche questo stato di grazia dura poco: le e' sufficiente rituffarsi nella "sua" America, che torna ad essere, al di là di tutto, una negra.

Non bastasse, vive accanto a un uomo – il terzo "fisso" - dalle mani bucate, che sperpera anche quel non molto che le passano i discografici. Lei ne e' consapevole, ma, dice: "Sono stufa di passare le notti sola con i miei cani in albergo, dopo un concerto". O peggio "risvegliarmi ogni mattina accanto a un uomo diverso"...

Tuttavia, non ha del tutto perso le speranze di un domani migliore. In attesa dell'uscita dell'autobiografia – siamo nella seconda metà dei Cinquanta - e convintissima che le porterà un guadagno, confessa agli amici il suo piu' nascosto desiderio: "Quando diventero' ricca mi comprerò una grande casa in campagna, così potrò adottare tanti bambini, di tutti i colori; e preparero' loro da mangiare con le mie mani, li accompagnerò a scuola, li coccolerò; e mi circonderò di tantissimi cani"...

 

E la ricaduta

 

Purtroppo, nel frattempo bisogna vivere, e lei non ha mai imparato quest'arte. Ripiomba nella droga. Riesce a malapena a incidere altri due dischi (l'ultimo, "The Last Recording" uscirà postumo); finisce in ospedale, piantonata dalla Narcotici, ulteriormente depressa dall'avvenuta morte del suo più caro amico, il succitato Lester Young, con cui aveva cantato l'ultima volta l'anno precedente (il brano "Fine and Mellow" e' immortalato su YouTube: con il suo sguardo tragico e dolce puntato su "Prez", mentre esegue un assolo). Il 17 luglio del 1959, a soli 44 anni, Billie Holiday si spegne a causa di sopraggiunte complicazioni per un'epatite.

I funerali saranno grandiosi. Vi partecipano jazzisti di tutta l'America. Testimoni oculari dicono che non c'era un solo presente che non piangesse.

Per un paio di anni, i suoi dischi andranno a ruba, poi il silenzio.

 

Lady Sings The Blues

 

Finché nel 1970 la più grande star del pop afroamericano, Diana Ross, forte dei milioni e milioni di dischi venduti e di una straordinaria fama internazionale, non si cuce addosso il personaggio di Billie nella pellicola "Lady Sings the Blues", regista Sidney J.Furie. (Vi lavora pure Richard Pryor). Il film e' orribile, la Ross – che si arroga il diritto di cantare, lei, i pezzi di Billie, cosa che in buona sostanza l'affossa come musicista e cantante - e' inudibile: e' come se Celentano facesse un film sulla vita di Luciano Pavarotti e ne cantasse le arie ...

La comunità afroamericana, la pensa diversamente, ma non la cittadella del jazz... D'altronde, i Neri d'America sono da poco usciti (nemmeno tutti, neppure ovunque) da uno stato di semi clandestinità' e di segregazione.

L'America bianca, a sua volta, ben sa di cosa e quanto ha da farsi perdonare; e Hollywood, meglio di altri. Sicche', nel 1972 Diana Ross e' Candidata all'Oscar, quale migliore attrice protagonista (idem dicasi per i BAFTA Awards britannici del 1974) e nel 1973 riceve il Golden Globe come "Nuova migliore protagonista"; non mancano altre Nomination...

Ma cio' che piu' importa, e' che il film porta a conoscenza dei giovani – di quei giovani che non erano neppure nati quando lei "imperversava", o avevano pochi anni - la vita e le canzoni di Billie Holiday. Da allora, Lady Day non ha smesso di incantare, affascinare, commuovere. E tanta critica ha anche rivisto le proprie posizioni rispetto alla Holiday degli anni Cinquanta, quella che usci' da Aldrerson, con una vocalità straziata e straziante, assai meno mobile di prima, con un'estensione ulteriormente accorciata, ma con una punta di tragicità sconosciuta nell'ambito canoro, non solo jazzistico.

Da allora ad oggi, la "stella" di Billie Holiday non ha smesso di brillare. Talune sue interpretazioni sono state addirittura utilizzate a scopo commerciale, come sottofondo musicale a prodotti di bellezza di alta classe, Non c'e' paese in cui la sua autobiografia (in verità, se paragonata alle tante testimonianze di chi l'ha conosciuta e amata, parecchio spurgata, abbellita) non sia stata ripubblicata varie volte. Comunque, non c'e' bisogno di conoscere la storia della sua esistenza per commuoversi. Basterà ascoltare alcuni brani, e non solo degli ultimissimi anni – "I am Full to Want you", "You've Change", "You don't Know what Love is" – ma anche i precedenti "Solitude", "God Bless the Child", "Don't Explain", "Fine and Mellow"... : altro che groppi in gola...

Dirà Miles Davis: "Era una donna molto dolce, molto calda; sembrava un'indiana con la pelle vellutata, marrone chiaro. Era una donna splendida prima che l'alcool e la droga la distruggessero. Ogni volta che mi capitava di incontrarla le chiedevo di cantare "I Loves you, Porgy", perché ogni volta che lei cantava "non lasciare che mi tocchi con le sue mani calde" potevi praticamente sentire quello che sentiva lei. Il modo in cui la cantava era magnifico e triste. Tutti quanti amavano Billie".

(Nella immagine sopra è invece ritratta nei tempi d'oro, ad una festa di musicisti jazz nel 1939)

 
 

Discografia

 

Tutta le registrazioni di Billie Holiday sono state restaurate dai nastri o 78 giri originali, masterizzate e pubblicate su CD e sono di facile reperibilità. Non erano album all'origine ma brani singoli e quindi la pubblicazione segue di solito un ordinamento cronologico.

 

Ricerche su YouTube

 

Una serie di video consigliati, da ricercare su YouTube, per un assaggio delle capacità interpretative di Billie Holiday:

  • Strange fruit  (2'34")

  • Lady in Satin (completo, oltre 1 ora)

  • My Man (3:25)

  • Fine and Mellows (in studio: 9', il video con i grandi del be-bop della prima foto in alto: imperdibile)

  • I Loves you Porgy (solo audio con foto, è citata da Miles Davis)

 

 

Note

 

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Se i video citati su YouTube non dovessero essere più disponibili, scriveteci per segnalarlo.

 

© Sandro Damiani per Musica & Memoria - Luglio 2013 / Riproduzione anche parziale della monografia non consentita

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