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The Cream - Monografia

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Tre musicisti, tre anni, tre LP e un supergruppo / Nascono i Cream / Una proposta musicale innovativa / Un successo immediato / Il secondo album, Disraeli Gears / Il terzo e definitivo album, Wheels Of Fire / Arrivati in cima, a volte la spinta si esaurisce / Contrasti e riappacificazioni

 

Tre musicisti, tre annni, tre LP e un supergruppo

Londra, 26 novembre 1968: la Royal Albert Hall ospita l'ultimo concerto del complesso britannico The Cream, il concerto con cui il più famoso trio della storia del rock, dopo due anni e mezzo di strepitosi successi, si scioglie. Ma era nell'aria da qualche mese, a causa anche delle reciproche incomprensioni dovute ai caratteri dei tre musicisti, peraltro vere e proprie star del rispettivo strumento: il bassista, cantante e armonicista Jack Bruce (Bishopbriggs, 14 maggio 1943 – Suffolk, 25 ottobre 2014), il chitarrista e cantante Eric Clapton (Ripley, 30 marzo 1945) e il batterista e percussionista Ginger Baker (Lewisham, 19 agosto 1939).

Se è vero che divennero star di prima grandezza suonando insieme, è anche vero che famosi e bravi lo erano già prima di fondarlo. Supergruppo, dicevamo. Appunto, perché ognuno di loro aveva già un nome, una "storia" alle spalle. Il Bruce, che detto per inciso aveva studiato violoncello al conservatorio, proviene tra gli altri dal complesso di Alexis Korner, considerato il padre del blues britannico, e di quello di john Mayall; il Clapton, pure lui vanta la frequentazione delquintetto del Mayall, ma ha suonato pure il beat con gli Yardbirds; il Baker, infine, ha nel proprio bagaglio di esperienze pure il jazz, sino a quel momento infrequentato dai rockettari; e non solo da batterista, ma anche da trombettista.

Ovviamente, i tre si conoscevano, avevano avuto modo di ascoltarsi l'un l'altro e di apprezzarsi reciprocamente, come pure in taluni casi, di lavorare fianco a fianco: Baker e Bruce con Graham Bond; Bruce e Clapton con Mayall.
(Nella foto, del 1967, Jack Bruce, Eric Clapton e Ginger Baker ormai già Cream)

 

Nel giro di pochi mesi, fatti di interminabili chiacchierate, prove, discussioni, decidono di dare vita ad una propria ditta, riversandovi tutto ciò che fino a quel momento avevano appreso: è il giugno del 1966. Il mese appresso, il debutto ufficiale: The Cream prendono parte al Windsor & Blues Festival. E' un trionfo. La BBC, radio e televisione, vista l'accoglienza presso il pubblico e presso il mondo musicale, li riprende e trasmette in più occasioni; e dire che ancora non hanno inciso nemmeno l'ombra di un disco. Il primo infatti, è il 45 giri che presenta "Wrapping Paper" e "Cat's Squirre". Esce a dicembre, ma non fa intendere cosa i tre hanno intenzione di suonare, di creare. Il primo pezzo è, a prima vista, una sorta di ballatina, ma con un testo stimolante, scritto dal poeta, musicista e performer Pete Brown; il secondo, è un brano similblues la cui melodia è suonata con l'armonica a bocca, inframezzata dall'assolo chitarristico. Nulla di tale, dunque, a parte – ma questo lo si sapeva – la padronanza tecnica degli strumenti da parte dei tre. Sempre a dicembre, a ruota, arriva sul mercato un secondo 45 giri: "I Feel Free" e "N.S.U.". Ma questa volta, l'ambiente resta senza fiato. Rock, blues, ma anche psichedelia, canto a tre voci, improvvisazioni basso-chitarra e una batteria che pare un treno in corsa, mai sentiti prima.

Non si fa in tempo a "digerire" la novità che arriva anche il 33 giri. E' "Fresh Cream". Ulteriore stupore. Molto merito va ovviamente, al produttore Robert Stigwood, che ha creduto alla formazione da subito. Lo Stigwood, infatti, come vedremo nel prosieguo della sua carriera, è uno che "sa", che ha naso... E' infatti anche il produttore dei propri connazionali, gli australiani Bee Gees e ben presto diverrà una potenza pure nel campo del musical: "Hair" nel 1967, "Oh Calcutta" nel 1969, "Jesus Christ Superstar" nel 1971, "Evita" nel 1978.

 I Cream degli esordi (1966) in due curiose foto di studio per il primo album e la copertina di "Fresh Cream".

Tornando ai Cream e al loro subitaneo successo, se si escludono vaghe tracce in talune composizioni dei Rolling Stones e degli Who, nessuno prima aveva pensato di fondere – e con quanta maestria ed equilibrio! - il rock con il blues e la psichedelia. E non solo in Gran Bretagna, nemmeno negli USA... si usa, adesso. E' del 1967, infatti, la nascita dei Blood, Sweat and Tears una sorta di “risposta americana” ai Cream; ma costoro sono in dieci, e utilizzano anche i fiati, come da crescente e avanzante R&B, con i suoi Otis Redding, Wilson Pickett e Aretha Franklin, per citare solo i più famosi.

A gennaio, "Fresh Cream" supera le centomila copie di vendita nel solo Regno Unito. Dall'Australia giungono richieste per alcune decine di migliaia. Gli USA, che fino a pochi anni prima (in pratica prima dell'avvento dei Beatles e dei Rolling Stones) puntualmente snobbavano quanto avveniva in Europa e in Gran Bretagna (un occhio di riguardo, però, ce lo aveva per l'Italia viste le origini dei maggiori vocalist bianchi, questa volta non si fanno trovare impreparati. Alla fine di gennaio sfornano in proprio il disco e in meno di dodici mesi se ne vende mezzo milione.

L'album propone alcuni pezzi inediti, per lo più a firma di Jack Bruce, un paio di brani li compone Ginger Baker (che manderà in visibilio gli amanti dello strumento, con il suo utilizzo di due casse, con cui imprime ritmi e controtempi da... urlo), uno di essi "Toad", assolo per batteria di quasi cinque minuti, che in concerto diventano poco più di nove. Due canzoni, che diverranno dei classici del, li compone la moglie di Bruce, Janet Godfrey, e sono "Sleepy Time Time" e "Sweet Wine". Infine, cinque pezzi composti da bluesman afroamericani: "Dreaming" e "Four Untile Late" di Robert Leroy Johnson; "Spoonful" di Willie Dixon, inciso la prima volta nel 1960 da Howlin Wolf e nel 1961 da Etta James; "I'm so Glad" di Skip James e "Rollin and Tumblin" di Muddy Waters.

Per i puristi del blues, il loro approccio è blasfemo: potenti ed espressivi riff, ritmica robusta e tanta, ma proprio tanta improvvisazione, e non del solo Clapton, ma anche del bassista; diciamo in proposito che Jack Bruce rivoluziona l'uso del suo strumento rispetto all'utilizzo nel rock e nel beat; egli lo rende partecipe del "gioco" melodico, gli fa assumere quel ruolo che spesso ha nei combo jazzistici, in cui, senza scomodare il sommo Charlie Mingus, non è solo "parte" della ritmica; tutt'altro. Pensiamo a Oscar Pettiford, Milt Hinton, Ron Callander, Paul Chambers, Charlie Haden, Paul West, Scott La Faro ...

Una doppia novità la introduce pure il batterista Ginger Baker; abbiamo detto della doppia cassa. Ma egli si "circonda" pure di tutto l'armamentario proprio del percussionista. Non dimentichiamo che all'epoca le rock band erano composte da quattro, massimo cinque elementi: tre chitarre (basso, solista, accompagnamento), batteria, organo/tastiera. Uno di loro a fare da cantante e frontman. Raramente, il vocalist non suonava.

I tre musicisti in azione negli anni dei Cream (Bruce, Clapton, Baker)

Ovunque vadano, i Cream "chiamano". Ma non tanto i ragazzini/ragazzine quanto un pubblico con un minimo di conoscenza musicale. Cosa del tutto ovvia, se si pensa che, tolti un paio di brani, la loro musica è tutto fuorché ballabile. Questo è anche uno dei motivi – non il principale: ci arrivo – per cui non hanno avuto imitatori. Sono gli anni in cui il sabato e la domenica si va a ballare, con la musica dal vivo. Ma come si fa a ballare sui loro brani o su quelli di Jimmy Hendrix? Non hanno imitatori, anche perché per poterlo fare bisogno essere in possesso di una tecnica (si fa per dire) "niente male", in primo luogo per districarsi nei virtuosismi cleptoniani e bakeriani; quindi, per fare il "Jack Bruce della situazione", bisogna avere l'abito mentale del solista, tutt'altro che facile da reperire in chi suona il basso.

Si diceva della mancanza di imitatori dei Cream. Ve ne furono, intendiamoci, ma rispetto alla fama raggiunta dal supergruppo e in rapporto a quelli che poterono vantare quasi tutti gli altri complessi dell'epoca, erano assai poca cosa. In compenso, ci sono stati tanti “creditori”, cioè singoli e gruppi che dalla musica dei Cream hanno tratto linfa, idee, schegge per dar corpo alla propria creatività.

Tre foto promozionali dopo il successo mondiale. L'ordine è sempre lo stesso: Baker, Bruce, Clapton.

La prima cover band dei Cream nasce in Istria

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Nacque a Fiume la migliore “copia" dei Cream in ambito jugoslavo e non solo. Si erano dati per nome “The Toys”. Era un quintetto, poiché al trio solista-basso-batteria si aggiungevano il cantante e un organista (che ovviamente suonava tutto meno che le canzoni dei Cream). Anch'esso ebbe solo tre anni vita, dal 1968 al 1970. Leader ne era il compositore e solista Vlado Stanković "Stone", un Clapton in sedicesimo; al basso c'era Darko Glažar e alla batteria Ratko Mamula. Erano degli ottimi "replicanti", non disponevano però del cantante "alla Bruce"; il pur bravo Igor Sandalić, infatti, non aveva quel timbro di voce (roco, semibaritonale, che fu un ulteriore elemento che caratterizzò i Cream) e neppure il cantante che per un breve periodo gli subentrò, lo possedeva (mea culpa... ero io). In compenso i Toys, alle cui serate danzanti ovviamente suonavano anche ballabili e non solo gli ostici pezzi della ditta Bruce-Baker-Clapton-Brown, nel 1969 si aggiudicarono il premio del pubblico alla "Gitarijada", cioè la rassegna dei complessi rock dell'area quarnerina, che si tenne al cinema Partizan (Fenice), presentata dal musicista Dario Ottaviani...

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Il secondo album, Disraeli Gears

Grande successo, dicevamo, sia in Gran Bretagna che negli States, ma anche in tutta Europa. Il trio, con il poeta Brown e il producer per l'America Felix Pappalardi, nel novembre del 1967 se ne esce con un secondo LP: “Disraeli Gears”. Nel giro di poco tempo esso conquista il quinto posto nella hit-parade britannica e il sesto in quella americana. E dire che di pezzi veramente forti ve n'è solo due. Ma uno di essi è “Sunshine of Your Love”, con quell'incipit che stregherà tutti i chitarristi del mondo, non ultimo colui che ha ispirato Bruce e Clapton a comporre il brano, cioè Jimi Hendrix, il quale a sua volta spesso lo eseguirà ai propri concerti. Incipit che, se eseguito come un lento ricorda una grande ballad del passato, “Blue moon”. Chissà forse anche per questo Lady Jazz Ella Fitzgerald lo mette in repertorio sin dalla sua uscita (ma interpretandolo come un brano rock).

“Disraeli” vende qualche milione di copie nel mondo; uno nei soli USA, dove i Cream intraprendono una lunga tournée.

 

Il terzo e definitivo album, Wheels Of Fire

Nel 1968 arriva la consacrazione definitiva. Ciò avviene con il doppio album – un disco registrato in studio e uno dal vivo in concerto – dal titolo “Wheels of fire”, che contiene alcune delle più famose canzoni del gruppo: “White Room”, di Bruce-Brown, anch'essa con un inizio ipnotico; “Sitting on the Top of the World” di Walter Vinston, un Mamphisbluesman, chitarrista e cantante. Ovviamente, il brano viene adattato da Bruce sulla base della versione di Chester Arthur Burnett, noto con lo pseudonimo di Howlin Wolf.

Quindi abbiamo la melanconico-psichedelica “Passing the Time” di Ginger Baker, autore anche di un secondo pezzo, un poemino bizzarro dall'accompagnamento musicale vagamente rinascimentale (in stile Beatles), con sottofondo di batteria tipo trenino e un assaggio solistico di Clapton: “Pressed Rat and Warthog”. Di grande effetto, poi, è un ennesimo brano del binomio Bruce-Brown, “Politician”, un lento che più lento non si può; un ennesimo blues originale, quale “Born under the Bad sign” di Booker T.Jones. Sorvolo sugli altri, benché meritevoli titoli, per ricordare ancora solo la “Crossroads” del già rivisitato Robert Johnson, in cui Eric Clapton si riconferma come il più grande virtuoso del rock (e del blues) europeo, e si conferma come ottimo – non dirò cantante, ma interprete canoro, fino a quel momento sempre a rimorchio di Bruce. Un cenno merita la versione dal vivo di “Spoonful”, con cui i Cream fanno “saltare il banco”, ovvero la regola secondo cui un brano rock (o beat o pop) non deve superare i tre-cinque minuti. Qui di minuti suonati ve ne sono sedici; e nemmeno uno è da... scartare.

Arrivati in cima, a volte la spinta si esaurisce

E' l'estate del mitico Sessantotto, loro sono ai vertici delle classifiche mondiali anche come singoli musicisti, ma sono anche un tantino stufi di stare insieme. Forse pensano di avere giò dato/detto tutto, come trio. Forse ognuno di loro vorrebbe che gli altri due facessero da “rimorchio”. Fatto sta, decidono di andare ognuno per la propria strada. E decidono di farlo alla grande, con un concertone, il “Farewell Concert” alla Royal Albert Hall, come abbiamo esordito, il 26 novembre. Obblighi contrattuali li portano a fare un quarto disco, l'ultimo, che uscirà l'anno dopo. Disco che è al contempo la “cartina di tornasole” del perché – egocentrismi e caratteracci a parte – il trio si è sciolto dopo appena due anni e mezzo, di un sodalizio, ripetiamo, favoloso sotto tutti i profili. Quindici milioni di dischi venduti non sono poca cosa, centinaia di concerti, tour in mezzo mondo... E poi, comunque, non dimentichiamo che i Cream sono stati l'unico complesso rock dell'epoca a creare ed eseguire musica “da ascolto”, negli anni in cui, come ricordavamo dianzi, non c'era paese, sobborgo, città che non contasse sale da ballo, discoteche, “buchi” in cui zompare a ritmo, con band più o meno improvvisate.

“Goodbye Cream”, con i tre fotografati per la copertina in frak argentato, cilindro e bastone, presenta solo sei pezzi (più un bonus aggiunto in seguito). Spiccano “I'm so Glad”, mai inciso prima, ma suonato nei concerti; “Politician”, entrambi in versione lunga (nove minuti il primo, sei il secondo) e “Sitting on the Top of the World”. Insomma, un ritorno al passato. Bruce, Clapton e Baker – ecco la cartina di tornasole di cui prima - avevano esaurito quella specifica vena in cui i pensieri musicali dei tre convergevano per dare vita a un frutto nuovo. Che di questo si trattò, lo dimostra il fatto che in seguito ognuno di loro, con altri compagni di strada o da soli, continueranno a creare ottima musica.

Ma l'Ellepi, paradossalmente, presenta anche l'unico pezzo pop del loro repertorio, “Badge”, scritto da Clapton insieme a George Harrison (i Beatles ancora non si erano sciolti), il quale vi compare con un assolo orecchiabilissimo.

Nella prima foto un'altra posa in studio. Nelle altre i tre sono in arrivo all'aeroporto di Heathrow. Le ragazze sono Janet Godfrey, la moglie di Jack Bruce, e Charlotte Martin. la ragazza di Eric Clapton nonché affermata modella.

L'addio non è dei più amichevoli, specie tra Clapton e Bruce. Eric, infatti, metterà in piedi un nuovo supergruppo con Baker e il tastierista ed ex cantante degli Spencer Davis Group e poi leader dei Traffic, Steve Winwood e Ric Grech dei Family – i Blind Faith. Un nuovo “power group”, ma che durerà meno di un anno, con un solo album all'attivo.

Negli anni a venire, crescendo e maturando umanamente, i tre si sono spesso incontrati, ma senza “imbracciare” i rispettivi strumenti. Fino a che nel 1993 non si sono trovati costretti a suonare nuovamente insieme. Costretti, in quanto assegnatari di uno dei più ambiti premi: l'inserimento nella Rock and Roll Hall of Fame; insomma, tra gli “immortali”. Per l'occasione, la “reunion” propone “Born Under a Bad Sign”, “Crossroads” e “Sunshine of Your Love”. Ne nascerà un DVD. Ma soprattutto negli orecchi di tutt'e tre si insinuerà una... pulce, dapprima quasi inesistente, poi sempre più fastidiosa, infine... La pulce della “reunion”. Che arriva nel 2005. Per la precisione, il 2 maggio. Naturalmente, sul luogo del delitto, laddove cioè si erano accomiatati, la Royal Albert Hall.

Il tempio musicale londinese è stracolmo. Quando entrano i tre vecchietti, pare scoppiare. Ne corso di quattro serate – due più due, dopo un giorno di riposo... - i tre over 60 eseguiranno quasi tutti i pezzi del proprio repertorio, una ventina. Va da sé, gli anni non perdonano. Non c'è più quella tremenda carica né nella voce di Bruce, né nelle bacchette e nei piedi di Ginger, né nelle dita di Eric. Ma vederli insieme (chi li ha amati, non ha fatto che sognarne il ritorno) è una goduria. Oltre tutto, quegli stessi titoli degli anni Sessanta, nei duemila sono quasi un'altra cosa, sembrano più meditati. E loro – dei santoni. Si divertono e divertono. Sarà così anche per i tre concerti di ottobre al Madison Square Garden di New York.

Entrambi gli appuntamenti, il trio li apre con “I'm so Glad” . Sono felice. Di essere qui con voi, evidentemente.

E' il caso di aggiungere che dopo quei due concerti i loro tanti ammiratori, tra cui migliaia di musicisti, non sperassero in un ritorno definitivo? Obiettivamente, per “dire” cosa? Avevano detto, e bene, già tutto.. Magari un appuntamento l'anno, questo sì... Purtroppo, nemmeno questo ci sarà: nell'ottobre del '14 uno di loro se n'è andato per sempre; Jack Bruce, guarda caso, la mente.

Restano i dischi, restano alcuni filmati. Restano le testimonianze delle reunion londinese e nuiorchese.

Un ultimo dato. Nei meno di tre anni di sodalizio, vendettero quindici milioni di dischi. Nei rimanenti, dal 1968 in poi, se ne vendettero altrettanti. La dice lunga sulla tenuta del loro modo di fare musica...

Ancora tre foto degli anni di maggiore successo, la prima del 1966 probabilmente, come si capisce dai baffi di Eric e dalla pettinatura di Jack.

Prima del concerto di addio del 1968, la copertina dell'ultimo album e un'immagine dalla reunion del 2005, ovviamente da sinistra sono sempre Bruce, Baker e Clapton.

Note

 

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© Sandro Damiani per Musica & Memoria - Dicembre 2018 / Riproduzione anche parziale della monografia non consentita

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